Ricca e densa di contenuti la giornata di confronti e riflessioni organizzata da Confindustria, lo scorso 13 Maggio a Torino. L’espressione “Stati Generali” riprende proprio il significato dell’assemblea che, nello stato francese, era convocata per intervenire e contrastare situazioni problematiche. Così – come evidenzia Giovanni Brugnoli, Vice Presidente per il Capitale Umano Confindustria – urge oggi affrontare un tema cruciale per lo sviluppo del Paese e delle imprese: l’importanza del sistema educativo e formativo quale strumento unico e decisivo per affrontare la mutevolezza degli scenari economici, l’avvento di innovazioni tecnologiche sempre più pervasive, il cambiamento radicale del modo di lavorare e delle professioni richieste.
Mentre i dati OCSE attestano che il settore dell’istruzione e della formazione prevedrà, in Europa, una crescita sostanziale di occupati e un’incidenza sempre più evidente negli scenari economici, in Italia l’educazione non è la priorità, non è il tema di cui si dibatte sui giornali e in tv, non è al centro di strategie di ampia gittata, non è lo snodo cruciale attraverso cui può dispiegarsi la crescita competitiva del territorio e delle imprese.
“Viviamo un tempo attraversato da una complessità senza precedenti” – osserva Brugnoli – “la quarta rivoluzione industriale non riguarda un Paese, ma il mondo, non riguarda una tecnologia, ma reti di soluzioni ampie e diversificate”: solo l’educazione, può “condurre fuori” dalla confusione, dall’incertezza, dal sovraccarico informativo i giovani, orientandoli verso i percorsi più funzionali alla loro occupabilità e affermazione personale. Gli stessi insegnanti hanno necessità di essere accompagnati alla scoperta di orizzonti, opportunità e scenari fino a pochi anni fa impensabili.
I dati rilevano con chiarezza il gap italiano nei confronti di altri Paesi più avanzati. In Italia solo il 4% degli studenti è impegnato in attività di alternanza scuola lavoro, a fronte del 20% di Stati Uniti, Cina, India ed Europa; solo il 3.4% del PIL è investito in educazione, a fronte del 4.4% in media negli altri Paesi; il 3.2% degli studenti italiani e il 75% dei docenti rileva un gap digitale, l’1% e il 40% nei paesi sopracitati; se in Italia si registra l’1.4 % di laureati in discipline STEM, in Stati Uniti, Cina, India ed Europa questa percentuale raggiunge il 3%.
Le testimonianze dei relatori evidenziano come questo gap quantitativo sia lo specchio di un profondo divario culturale. In America, sottolinea, Sian Proctor, astronauta e divulgatrice scientifica, le famiglie scelgono dove trasferirsi per assicurare ai loro figli di iscriversi nelle scuole più prestigiose e ambite. Lo studio è percepito come l’unico strumento che possa portare al successo e alla realizzazione personale. Esistono programmi radiofonici, televisivi, giornali e altri canali attraverso cui si parla di educazione e formazione, alimentando una cultura diffusa e consolidata della strategicità di tale tema.
Sempre più diffusi, anche in risposta al rincaro dei costi di iscrizione alle università, sono i Community & Techinical College, in cui gli studenti imparano e lavorano insieme, frequentano corsi su temi attuali e prioritari, come la cyber security e l’autoimprenditorialità, imparano ad utilizzare e sfruttare le potenzialità del digitale.
In Cina, racconta Simone Hu, Responsabile della Scuola di Formazione Permanente Fondazione Italia Cina, esiste una strategia nazionale specifica per il sviluppo industriale con un orizzonte temporale che arriva al 2025, ma con l’obiettivo nel 2035 di raggiungere il primo posto nella classifica delle manifatture industriali e nel 2049 di mantenere la posizione di leadership.
Un Paese che sa guardare lontano e, all’interno di tale strategia, vi è un focus sullo sviluppo del personale dell’industria, attraverso tre progetti specifici: il “985” che ha previsto stanziamenti ad hoc per le università, il “211” che ha stabilito investimenti specifici per scuole e università e “doppia prima classe università” per valorizzare e sostenere economicamente le migliori università cinesi. Inoltre, sono state introdotte metodologie didattiche innovative – classi cloud, internet plus, utilizzo di mooc –, sono stati istituiti corsi di laurea in linea con i trend del mercato: scuola di robots, scuola della scienza e tecnologia dei grandi dati, scuola di intelligenza artificiale, scuola della scienza e delle tecnologie intelligenti.
In India, racconta Adhitya Iyer, scrittore ed education strategist, è ancora più evidente il peso dei condizionamenti culturali e sociali. L’India “sforna” più ingegneri di Cina e Stati Uniti: un detto dice “se lanci un sasso cadrà a terra o sulla testa di un ingegnere!” Del resto l’India è un paese ricco di “risorse umane”: conta più di 650 milioni di giovani under 25 e 845 milioni di under 35 ed il fatto che sia stato istituito “the Ministry of skill development and entrepreneurship” fa ben capire quanto punti a valorizzare tali risorse.
Al termine della scuola superiore gli indiani hanno soltanto due opzioni tra cui scegliere: un percorso matematico o umanistico. La scelta del percorso umanistico è vista come ripiego, come una mancanza, un motivo di imbarazzo per le famiglie. Ecco, dunque, che gli ingegneri imperversano e riescono ad avere un successo strepitoso anche all’estero. Una volta laureati, in 6 mesi sono formati dalle aziende IT che, sfruttando la loro conoscenza dell’inglese, possono utilizzarli per la consulenza di clienti in tutto il mondo. Il 16 % delle start up della Silicon Valley ha un coufonder indiano. Gli ingegneri sono, dunque, ricercati all’estero, ma sono soprattutto trattati come delle rockstar in Patria.
Quanto, quindi, i nostri modelli culturali incidono negativamente sullo sviluppo dei nostri sistemi educativi?
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